STUDI E PROGETTI / PROGETTO URBAN (Anno 2000-2001)

A volte da sole non si può

In caso di lite violenta con il marito o con il compagno,
di una violenza domestica,
di una violenza sessuale.
Durante o immediatamente dopo.
Per me, per un’amica, per la mia vicina, per un’altra donna.
E se fosse una bambina o un bambino?
Il momento della crisi: a chi rivolgersi nella nostra città?

Cos'è Urban

Il programma Urban
Il Programma di Iniziativa Comunitaria (PIC) URBAN può definirsi un laboratorio sperimentale di rigenerazione economica, sociale ed ambientale dei quartieri svantaggiati di 120 città dell’Unione Europea; si tratta di contesti urbani molto diversi per tessuto sociale e situazione politica, che, tuttavia, hanno in comune alti tassi di disoccupazione, degrado edilizio e ambientale, carenze di attrezzature e servizi pubblici, criminalità e disagio minorile. La validità della politica di interventi integrati messa in atto dall’Unione Europea, rivolta a zone delimitate, quartieri o aree urbane svantaggiate, ha garantito il miglioramento della qualità della vita degli abitanti, coinvolgendo direttamente circa tre milioni di persone nel processo di valorizzazione e riqualificazione del territorio. Le azioni del Programma sono state indirizzate oltre che al recupero delle infrastrutture e dei complessi monumentali, al miglioramento dei servizi sociali ed alla riqualificazione degli spazi pubblici. Per l’attuazione del PIC URBAN, la Commissione Europea ha stanziato circa 1.700 miliardi di lire, cui sono stati aggiunti finanziamenti pubblici nazionali e locali e finanziamenti privati. Gli interventi previsti dal PIC variano in relazione ai contesti urbani; in Italia interessano i quartieri più poveri e socialmente degradati di sedici città: Bari, Cagliari, Catania, Catanzaro, Cosenza, Foggia, Lecce, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Salerno e Siracusa, città localizzate nelle regioni dell’obiettivo 1; Genova, Trieste, e Venezia dell’obiettivo 2 e Roma che, pur essendo fuori obiettivo, presenta in alcune zone fenomeni di povertà e degrado ambientale.

Urban Palermo
Come in molte città del Mediterraneo, in modo particolare del sud Italia, il decentramento delle funzioni urbane ed il progressivo degrado delle abitazioni e delle infrastrutture, ha determinato un consistente spopolamento degli antichi centri storici.
Il Programma URBAN della città di Palermo si inserisce, pertanto, nel contesto di una più ampia programmazione di interventi, avviati dall’Amministrazione Comunale di Palermo, che vede nel recupero del Centro Storico un momento fondamentale di rinascita dell’intera Città. In particolare, il programma URBAN prevede iniziative di riqualificazione di una porzione ben definita del Centro Storico costituita dai due antichi mandamenti “Castellammare – Tribunali”. Il mandamento ha origine nel 1600, quando a Palermo fu attuato un radicale rinnovamento urbanistico con la realizzazione di una strada, (l’attuale Via Maqueda), perpendicolare alla più antica via del Cassaro (“al quasr”, ovvero, castello fortificato concepita in epoca araba intorno al IX secolo). Il Centro Storico fu così diviso in quattro mandamenti: Monte di Pietà, Castellammare, Palazzo Reale e Tribunali. L’area, costituita dai due mandamenti “Tribunali” e “Castellammare”, è stata identificata per la particolare situazione di degrado e di abbandono del tessuto sociale, edilizio ed ambientale. La configurazione urbanistica, le tradizioni storiche e culturali di questa parte del Centro Storico, estesa per circa 112 ettari, hanno facilitato l’attuazione di un programma integrato di interventi volti al miglioramento delle infrastrutture e dell’ambiente, allo sviluppo economico ed all’integrazione sociale. Con il recupero di alcuni edifici storici, destinati ad attività culturali e di promozione turistica e la trasformazione, ad opera degli stessi abitanti, di aree degradate in spazi urbani da vivere, il Programma Urban è divenuto un modello operativo per tutte le politiche ed azioni di riqualificazione territoriale. Il Programma sostiene il reinsediamento stabile della popolazione, attraverso politiche mirate di urbanizzazione, interventi alle infrastrutture e l’avvio di attività di natura sociale, imprenditoriale, artigianale, culturale e turistica, avvalendosi dello scambio d’informazioni e di esperienze con altre città beneficiarie dei contributi comunitari e nazionali. A Palermo, l’impegno finanziario complessivo di circa 42 miliardi di lire d’investimento, ha generato flussi finanziari di privati, imprenditori, enti pubblici territoriali, aziende speciali e università. Già da oggi, con l’attuazione del Programma Urban è tangibile il rinnovamento di una politica imprenditoriale, economica e sociale del quartiere, reso possibile dalla profonda conoscenza del “territorio”, delle tradizioni culturali del centro storico. Un’ulteriore conferma dell’efficacia del PIC Urban è data dall’inversione di tendenza del processo migratorio, che per troppi decenni ha visto abitanti, commercianti, artigiani del quartiere trasferirsi verso le moderne periferie. Oggi il ripopolamento del Centro Storico favorisce lo sviluppo dell’artigianato locale, la diffusione di tecniche e procedure operative di restauro, il recupero di spazi urbani prima degradati e la graduale riduzione della disoccupazione locale e dei fenomeni legati alla microcriminalità.

La ricerca

Aree interessate dall’indagine
L’indagine realizzata a Palermo ha riguardato due macro aree della città, estendendosi oltre il quartiere Urban, e focalizzandosi sui quartieri Tribunali Castellammare, Palazzo Reale Monte di Pietà, Politeama e Libertà. Sostanzialmente si sono disegnati i confini di due zone, corrispondenti grossomodo alle borgate storiche della città e alle zone residenziali di nuova urbanizzazione. Contrariamente a quanto accaduto in altre città italiane, le zone del centro storico (Tribunali Castellammare e Palazzo Reale Monte di Pietà) sono caratterizzate da degrado urbano e svantaggio sociale, pur coesistendovi zone di risanamento a prevalenza medio borghese. Negli anni si è determinato un fenomeno di “mutazione genetica” di questi vecchi quartieri, realizzandosi un inaridimento della tradizionale vocazione artigianale e commerciale degli abitanti a causa del loro spostamento in altre zone della città, e dell’insediamento dei cittadini extra comunitari socialmente più fragili nelle zone degradate, e di cittadini medio borghesi nelle zone risanate. Quello cui si assiste è uno scenario di un territorio in rapida e contraddittoria trasformazione, la cui direzione non appare ancora chiara. La seconda macro area si configura come una zona mista dove a nuclei di degrado socioambientale si affiancano zone di residenzialità medio-alto borghese.

Servizi presenti nei contesti indagati
Dall’analisi della mappatura dei servizi si è rilevata una loro distribuzione non omogenea nelle macro aree descritte. Se, infatti, il dato della scarsità di servizi educativi rivolti alla prima infanzia è trasversale al territorio indagato, quello sulla dislocazione dei servizi socio-assistenziali e per l’infanzia è particolarmente penalizzante proprio nei quartieri del centro storico. Si è rilevata o l’assenza di servizi di riferimento o la loro dislocazione in zone “esterne” al bacino d’utenza. In questo quadro un ruolo confortante è svolto da alcuni progetti per i bimbi e per le loro madri gestiti dal privato sociale, finanziati dal programma Urban, di aggregazione e animazione, che svolgono una funzione di sussidiarietà rispetto agli enti pubblici. Non si può però non porre l’accento sul rischio di cessazione a causa della non strutturalità degli interventi. Queste prime osservazioni sui servizi si sposano peraltro col dato relativo alla dispersione scolastica femminile, caratterizzata da un netto incremento nel passaggio delle bambine dalla scuola elementare a quella medio inferiore, in particolare nei quartieri Tribunali-Castellamare e Palazzo Reale-Monte di Pietà. Le bambine in questa delicata fase di passaggio sono sovente “ritirate” dalla scuola, per svolgere una funzione di cura dei/lle fratellini/sorelline, secondo il permanere di un modello familistico ancora molto diffuso nel meridione d’Italia. E’ evidente che il mancato supporto da parte degli enti pubblici all’infanzia e alle madri non favorisce l’emancipazione da tale modello. I dati evidenziano come ancora non sia stata adottata una politica sociale che investa sulla creazione di servizi che possano promuovere una più ampia pluralità di soggettività femminili, su cui non pesi la strettoia della costruzione di un’identità legata fin dalla prima adolescenza al lavoro riproduttivo e di cura.

Violenza contro le donne: percezione della violenza
Per quanto riguarda la percezione della violenza da parte dei/lle cittadini/e dell’area d’indagine, a grande maggioranza indicano di ritenere “molto” (33.92 %) e “abbastanza” (40.69 %) frequenti i casi di violenza e maltrattamento all’interno dei propri quartieri. A fronte di questa diffusa percezione però pochissimi sono i casi in cui si denuncia di esserne vittima.
Prima di commentare questo dato ci vorremo però soffermare a considerare gli atteggiamenti degli intervistati/e sulla tematica della violenza contro le donne. Per semplicità procederemo descrivendo i risultati ottenuti ad alcune domande “sensibili”, che consentono con più evidenza di discriminare tra atteggiamenti differenti. In merito alla violenza sessuale alla domanda “La violenza sessuale è un problema che riguarda: le donne disagiate, tutte le donne, ecc.”, sono il 13.46 % tra gli uomini della fascia 50- 59 anni e l’11.94% tra le donne della stessa fascia di età che affermano che riguarda “solo le donne attraenti e vistose”, secondo un mitologhema che descrive le donne come “diavoli tentatori” avvenenti e ricettive sessualmente indifferenziatamente.
I motivi rintracciati come causa della violenza sessuale, dispiegati su un ampio ventaglio di risposte, tendono nel 38% a concentrarsi intorno a motivi di ordine “culturale” (“i comportamenti di alcune donne”, “i problemi dell’uomo per la maggiore autonomia della donna”, “l’uomo è fatto così” ecc.) esprimendo più che una visione critica dei rapporti tra i generi, una rigidità di ruoli stigmatizzante comportamenti “non tradizionali” delle donne, e riproponendo lo stereotipo della donna preda e dell’uomo cacciatore, in linea con una rappresentazione in cui l’autodeterminazione femminile viene tradotta in termini di provocazione di una sessualità maschile intesa come “istintivamente” incontenibile.
Per quanto riguarda le cause della violenza maschile le risposte più frequenti sono state: “essere geneticamente predisposti alla violenza” (16,35%); “un basso livello di istruzione” (12,66%); “i comportamenti di alcune donne” (11,20%).
Le donne con età compresa tra 18-49 anni rispondono soprattutto “l’essere geneticamente predisposto alla violenza” (ca. il 17%), mentre le donne più adulte (50-59 anni) concentrano le loro scelte primariamente sulla risposta “il comportamento di alcune donne” (17,70%) e secondariamente “l’essere geneticamente predisposti alla violenza” (13,11%). Quest’ultima risposta è stata scelta anche dagli uomini della fascia 18-29 anni (17%).
Il 16.23 % degli/lle intervistati/e, e in particolare gli uomini di 18-29 anni, parlano di violenza sessuale “solo nel caso di segni evidenti”. Infine, circa il 5% del campione si dice convinto che vi siano circostanze che giustificano la violenza sessuale (“quando la donna provoca l’uomo”, “quando chi la commette è da tanto tempo che non ha rapporti” ,”quando la donna accetta di essere baciata, toccata” ecc.) e nella stessa percentuale pensa che se una donna non reagisce è perché “subire violenza le piace”. Anche in questo caso le risposte sono in maggiore percentuale frequenti tra le donne della fascia 50-59 anni.
Per quanto riguarda il maltrattamento il 48% del campione ritiene che più frequentemente sia l’uomo ad essere violento nella coppia, mentre soprattutto gli uomini molto giovani e le donne di 50-59 anni ritengono che sia la donna più frequentemente violenta nella coppia, inoltre il 25% del campione tende a sminuire i gesti violenti nelle relazioni tra donne e uomini (“uno schiaffo ogni tanto non crea problemi”, “in una coppia è facile che scappi uno schiaffo”), con una prevalenza delle donne e degli uomini della fascia 50-59 e dei/lle giovanissimi/e di entrambi i sessi. Infine, per quanto riguarda la violenza sessuale coniugale sono soprattutto le donne della fascia di età 50-59 ed i giovani maschi 18-29 a ritenere che tra marito e moglie non si possa mai parlare di violenza sessuale, mentre le ragazze coetanee ritengono che il marito respinto abbia diritto a gesti di forza. Per quanto le risposte evidenziate siano minoritarie, l’attenzione alla distribuzione nei campioni per sesso ed età, suggeriscono la preoccupante presenza di aree di “criticità” culturali e generazionali. Da un lato si evidenziano sacche sociali in cui continua a prevalere un atteggiamento di colpevolizzazione del femminile, individuando in alcune caratteristiche delle donne (avvenenza, giovinezza, comportamenti emancipati, ecc.) la causa della violenza, e di deresponsabilizzazione maschile (essere fatti così, essere malati ecc.). Al contempo si registra una certa tolleranza proprio verso quelle forme che costituiscono la gran parte della violenza contro le donne, e cioè la violenza sessuale ed il maltrattamento ad opera di coniugi, conviventi, fidanzati. Se il giudizio morale nei confronti della violenza sessuale è più netto, rimandando probabilmente ad una rappresentazione sociale della violenza sessuale come episodica e che si consuma al di fuori delle mura domestiche o della rete abituale di conoscenze, nel caso della violenza sessuale e del maltrattamento che si inscrive nell’ordine delle relazioni di coppia o familiari, il giudizio e la stessa possibilità di essere connotati come atti di violenza e di coercizione sfumano nei concetti di dovere coniugale o di fisiologica dinamica del rapporto tra i sessi. Come si è visto peraltro, insieme alle “vecchie” generazioni, appaiono particolarmente permeabili a tali modelli di coniugalità i giovanissimi di entrambi i sessi. Inaspettatamente i/le giovani appaiono legati/e a modelli di coniugalità che attribuiscono alla donna il “dovere della abnegazione alla famiglia” ed a contratti sociali di genere che legittimano l’asimmetria di potere ed il controllo violento della sessualità femminile da parte maschile.
Più in generale la pregnanza di rappresentazioni sociali di questa natura contribuisce a comprendere la difficoltà, evidenziatasi nella esiguità del numero delle donne che hanno dichiarato di essere vittime di violenza, di esporsi a giudizi sociali ancora assai penalizzanti. Inoltre l’assenza di riconoscibilità sociale della violenza e di un adeguato con-senso sociorelazionale alla sofferenza della vittima, priva le donne delle parole per dire il dolore, letteralmente le lascia senza parole.

Uno sguardo sui servizi
Rimane da chiedersi in questo quadro, quale ruolo svolgono le diverse agenzie, i servizi, le istituzioni nel fornire un supporto alle donne e nel promuovere “politiche” di rinegoziazione del rapporto tra i sessi.
Il primo rilevamento sui servizi riguarda l’area della formazione e dell’aggiornamento: solo una ridotta percentuale di operatori pubblici (17%) ha usufruito di esperienze formative successive al conseguimento dei requisiti curriculari richiesta e ancora più esigua (7%) è la percentuale di coloro che hanno svolto attività di aggiornamento sulla violenza domestica. Si registra una situazione differente tra gli operatori del privato sociale, che per la metà dichiarano di avere avuto esperienze formative post-curriculari, anche se resta bassissimo il numero di coloro che hanno partecipato a percorsi formativi specializzati sulla violenza intradomestica. Tale carenza formativa contraddice palesemente quel dettame, condiviso da più parti, che afferma la necessità di assumere l’attitudine alla “formazione permanente” nelle professioni di cura (assistenti sociali, psicologi, psichiatri, medici) come attributo essenziale di tali professioni.
Va registrato, però, che il 76% degli operatori riterrebbero opportuna una formazione specifica sul trattamento dei casi di violenza ed in percentuale ancora maggiore, su tutte le aree di pertinenza professionale. La maggiore carenza di formazione tra gli operatori del pubblico evidenzia, a nostro giudizio, da parte degli enti una scarsa incentivazione del proprio personale al miglioramento della qualità delle risposte all’utenza e, probabilmente, la tendenza a erogare servizi indifferenziati alle sue diverse tipologie.
Le esigenze formative in materia di violenza contro le donne maggiormente evidenziate dagli/lle operatori/trici si riferiscono al bisogni di conoscenza degli indicatori per la diagnosi e sulle strategie d’intervento più efficaci, ed in particolare, gli operato/trici di Polizia e del Pronto Soccorso, esprimono bisogni formativi concernenti l’aggiornamento sulla legislazione vigente ed il miglioramento delle competenze relazionali per l’approccio alle donne che hanno subito violenza.
L’espressione di tali esigenze pone l’attenzione sulla problematicità del rilevamento e dell’intervento nei casi singoli (confermata dai dati di individuazione dei casi di violenza forniti dagli operatori), ma anche sposta l’attenzione dal silenzio delle vittime alle difficoltà degli/lle operatrici. La richiesta di migliorare la propria capacità di ascolto dà voce all’importanza di sapere fornire un’accoglienza contenitiva e rassicurante alle donne vittime di violenza ed al rischio per gli operatori se non adeguatamente formati, di burn-out causato dall’insidiosa “traumaticità dell’ascolto della violenza” che può dar luogo a pericolose reazioni controtransferali di aggressività inconsapevole dell’operatore, di frustrazione, di misconoscimento ed infine di vittimizzazione secondaria della donna.
In questo panorama spiccano le/gli operatrici/ori dei servizi di salute mentale che contrariamente alle esigenze espresse dai colleghi degli altri servizi, in percentuale significativa considerano non opportuna una maggiore formazione sui casi di violenza.
Questa convinzione viene per lo più motivata col fatto che soltanto una piccolissima percentuale dell’utenza dei servizi psichiatrici presenta disagi connessi alla violenza. Questa affermazione appare in contrasto coi dati fornitici dalle/gli stesse/i operatrici/ori sul numero di casi trattati, tra i più alti tra i diversi servizi, e discorda col fatto che chi opera nel Pronto Soccorso dia come prassi consolidata l’invio a psichiatria, o la richiesta di consulto psichiatrico, delle donne individuate come vittime di violenze. Non fondata appare dunque la motivazione proposta dal personale psichiatrico. Sembra verosimile che le resistenze alla necessità di attività di aggiornamento possano derivare da una parte dal considerare la propria competenza già come “specializzata” (“noi siamo un servizio di secondo livello” affermano alcuni psichiatri) ed al contempo dalla conformità a chiavi interpretative “tradizionali” proprie della psichiatria. Ci riferiamo a categorie interpretative che riconducono il problema della violenza contro le donne a categorie diagnostiche quali quelle del masochismo o della costituzionale fragilità della psicologia femminile, o che decontestualizzano il disagio espresso dalle donne che hanno subito violenza. Occorre, comunque, osservare che alla luce delle più recenti aperture della psichiatra, della psicologia clinica, e della psicoanalisi (basti pensare agli studi nordamericani o agli scritti più recenti di molte psicoanaliste sulle conseguenze delle relazioni violente o sulla identità femminile) tale arroccamento teorico pare più connesso ad una scarsa attenzione agli avanzamenti teorico-clinici della propria disciplina che ad una effettiva fissità della moderna psichiatrica.
I servizi offrono uno spaccato in cui il 39% degli operatori, il 65% per quanto riguarda il maltrattamento, affermano di avere affrontato casi di violenza, in particolare i servizi di salute mentale, Pronto Soccorso e Polizia. Tali dati includono anche quelli relativi alla violenza contro gli uomini. A tal proposito occorre osservare che i dati sul maltrattamento degli uomini hanno incluso gli episodi di rissa, prevalenti rispetto a tutte le altre tipologie di violenza.
In riferimento all’autore delle violenze ed ai luoghi, l’analisi dei dati conferma che la violenza contro le donne si consuma soprattutto all’interno della famiglia. Vengono individuati, infatti, tra gli autori di violenza sessuale contro le donne, nel 42% il coniuge (cui si aggiunge per il 10% “un parente”), 88% per il maltrattamento, e come luogo della violenza sessuale, nel 64% la casa, 90% nel caso di maltrattamento. Questi dati confermano che la violenza sessuale in età adulta si connota come violenza di genere essendone vittime in larghissima maggioranza le donne ad opera di uomini. Nel caso di violenza sessuale contro soggetti di sesso maschile, si tratta spesso di violenze subite da parte di uomini in età minore e più raramente in età adulta. Queste ultime sono segnalate in gran parte dai Sert. Probabilmente la condizione di tossicodipendenza fa sì che questi uomini possano essere identificati come “soggetti deboli”, fragile preda per le aggressioni sessuali da parte di altri uomini.
Complessivamente il numero dei casi segnalati da parte dei servizi, modesto se incrociato con la percezione diffusa di violenza (da parte degli stessi operatori/trici, dei testimoni privilegiati, dei residenti) lascia perplessi sulla capacità di diagnosi e di intervento concreto dei servizi indagati, e lascia aperta la questione di quale sia la “soglia di tolleranza” istituzionale della violenza contro le donne .
Infine, per quanto riguarda l’esistenza di protocolli di trattamento interni o interistituzionali, a maggioranza gli operatori rispondono che non sono presenti nei propri servizi. Lì dove dichiarato che esistono si fa riferimento al trattamento di abusi sui minori, a prassi consolidate in solitudine da singoli operatori/trici, o in altri casi, come nei commissariati, soltanto una parte degli operatori ne è a conoscenza.
In sintesi si possono evidenziare alcuni elementi critici:

  • Difficoltà ad operare analisi di “contesto” dei casi che si presentano, che emerge dalla non conoscenza della cultura di riferimento e della realtà sociale in cui si opera (dovuto anche a spostamenti da un servizio all’altro della città).
  • Debole capacità di analisi e di promozione di progettualità sul territorio e/o con i/le singoli/e.
  • Difficoltà in alcuni casi ad assumere il “saper essere” del proprio ruolo professionale, di cui è parte essenziale la capacità di ascolto dell’altro e dei propri vissuti e la capacità di far entrare in risonanza il proprio mondo esperenziale con quello dell’altro/a. La presenza quindi di una professionalità utilizzata come corazza difensiva contro la relazione con l’utente.
  • Alcune false credenze: qualche operatore dichiara che alcuni quartieri sono insicuri per le donne a causa della forte presenza di immigrati, si tratta di una convinzione non supportata da dati di fatto che tende a proiettare “all’esterno” la causa della violenza. Il pregiudizio sugli immigrati è fra l’altro contraddetto dai dati sulla violenza all’interno delle mura domestiche, ben più elevati di quelli relativi alla violenza che si verifica per strada. Si sostiene anche che molti quartieri sono a rischio per l’alto tasso di donne sole residenti. Anche in questo caso è difficile rintracciare una ratio convincente di questa lettura.
  • Scarsa diffusione tra le istituzioni pubbliche e tra gli operatori di una modalità operativa che si ispiri ed attui un’ottica di rete.
  • Convincimento che il problema del maltrattamento e della violenza sessuale sia di pertinenza solo di certi servizi, in particolare delle professioni di area psicologica e sociale. In realtà le conseguenze dirette della violenza contro le donne riguardano pesantemente anche il comparto medico-sanitario così come confermano le più recenti ricerche sulla eziologia nella morbilità per molte patologie (gastroenteriche, ginecologiche, psicologiche ecc.).

Si ha dunque una fotografia dei servizi in cui ancora residuale è l’attenzione alla problematica del maltrattamento domestico ed insufficiente la strumentazione per affrontarne la complessità. In particolare il compartimento sanitario appare impreparato ad individuare ed affrontare il fenomeno ed a comprenderne le dirette ricadute di propria pertinenza.
Le carenze rilevate appaiono “strutturali” e producono ricadute nel lavoro dei singoli operatori, che privi di adeguati dispositivi d’intervento vengono indirettamente sollecitati alla negazione, sottovalutazione, o alla delega ad “altri”, mai chiaramente definiti, dell’onere della presa in carico.
Il non avere sufficiente informazione e formazione, la scarsa disponibilità di risorse in termini di nuove competenze, spazi e tempi, ma anche di risorse economiche utili per il sostegno diretto delle donne, inevitabilmente sospinge gli operatori verso ampie macchie cieche sulla realtà o verso l’attivazione di protocolli d’intervento adattati forzosamente al maltrattamento o addirittura all’adozione di categorie interpretative, come quelle prima citate, a tono con pericolose spinte emozionali difensive di natura xenofoba o sessuofobica.
Va sottolineato, comunque, che le carenze di sistema limitano fortemente lo sviluppo di una cultura di servizio “attrezzata” contro la violenza ed integrata con le risorse territoriali disponibili e/o specializzate.
Il quadro delle politiche sociali della città, pur creando spazi per servizi innovativi quali la “Casa delle Moire”, gestito da Le Onde ONLUS, tende a isolarli ed a non permearsi dell’esperienza prodotta da un servizio di donne per le donne, non cogliendo la pertinenza e la professionalità dell’intervento da mutuare e da ampliare rispetto all’entità del problema dichiarato dagli stessi servizi locali, peraltro fruitori diretti di questa professionalità specializzata. Altra area che emerge come strutturalmente scoperta è quello dell’intervento in emergenza, che lascia alle forze dell’ordine il compito della repressione e non adotta modalità flessibili da integrare coi propri servizi territoriali.
Il quadro complessivo che si delinea richiederebbe l’avvio di interventi strutturali sia sul piano culturale, sia sul piano sociale e di servizi alla comunità, utilizzando un approccio di rete e la trasversalità di alcune azioni formative e di integrazione dei servizi esistenti.Aiutare le donne ad uscire dalla violenza significa migliorare la qualità della vita, valorizzando le relazioni quali strumenti di trasmissione di cultura e valori e permettendo l’iscrizione sociale di una differente rappresentazione del problema. I dati e gli elementi che emergono da questa indagine sono solo il primo passo ed indicano dove si può procedere per migliorare ed adeguare competenze e professionalità, oltre che la necessità di innescare modifiche culturali che cambino il senso comune ancora così diffuso della normalità della “piccola violenza”, quella che si consuma in casa e che si subisce da chi si ama.

Anna Alessi, psicologa, responsabile della struttura residenziale per donne maltrattate “Casa delle Moire” della Associazione Le Onde ONLUS. Ha curato la redazione del rapporto locale di Palermo.

A volte da sole non si può

La violenza contro le donne, sessuale, psicologica, economica e fisica, è un problema sociale di grande importanza. Chi vive una situazione di violenza sa bene quanto sia difficile chiedere e trovare aiuto per interrompere una spirale fatta di silenzio, umiliazione, dolore e angoscia. La paura di non essere credute da nessuno, di perdere casa, bambine/i ed amiche/i, di non farcela economicamente e psicologicamente, di essere giudicate, spesso non permette di parlare e di dire liberamente ciò che si sta vivendo. Il senso di colpa da parte di chi subisce, che spesso accompagna la violenza, è un effetto della violenza. Non è colpa tua se lui è così… La paura ed il senso di colpa sono alleati di chi violenta, picchia, insulta e toglie ogni capacità di decisione per sé e per le/i proprie/i figlie/i di chi ci fa sentire una nullità. Ma rimanere nel silenzio non aiuta, può solo peggiorare le cose. La speranza che lui cambi è un sogno consolatorio. E’ questo il motivo per cui noi, che lavoriamo nel Centro di accoglienza per donne maltrattate e violentate, nella Polizia, nei Carabinieri, nei consultori, nel “Telefono Donna” della Azienda ASP Palermo, nei servizi territoriali e nell’ufficio minori del Comune, abbiamo pensato che fosse utile informati su quali servizi sono presenti in questa città che rispondono al tuo bisogno di aiuto.
Questo spazio informativo nasce dal lavoro che insieme stiamo facendo per costruire una rete di risposte migliori per le donne che vivono problemi di violenza in famiglia o subiscono violenze sessuali. Sono delle informazioni utili per conoscere chi può darti una mano ad affrontare e risolvere la violenza. Devi essere tu a fare il primo passo.
Nessuno ti può sostituire in questo. Noi possiamo accogliere la tua domanda, naturalmente ognuna/o con le proprie competenze e il proprio ruolo. Vogliamo che tu sappia di non essere sola e che il problema che vivi non è solo tuo e può essere affrontato.
La violenza contro le donne è un reato, non è un problema di coppia, né una tua responsabilità.
Abbiamo anche inserito uno spazio utile nel caso tu voglia chiedere aiuto per un minore.
Aiutaci ad aiutarti.

AREA PROGETTI E SERVIZI

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